Ti alzi, il mattino del due di giugno, e scopri che ha appena finito di nevicare. C'è un bel sole, i prati sono bianchi di neve, bianchi di neve sono gli alberi. Il contrasto fra il verde vivissimo delle foglie fresche e la neve è spettacolare.
Ho fatto colazione, ho messo un pail ed il berretto, e sono andato a fare due passi. La passeggiata da casa mia al Passo è in un bosco di faggi sotto una galleria di rami.
Mentre camminavo il sole di giugno ha fatto il suo corso, e nel quarto d'ora di camminata ha praticamente sciolto tutta la neve, tutta sulla mia testa.
Il paesaggio era surreale. Verde, bianco, una sottile nebbiolina sotto agli alberi.
Sarà stata la sorpresa, sarà stato il silenzio, sarà stata la bellezza di quel momento. Ma la mia mente è diventata filosofica. E ha cercato di attribuire un significato a questo spettacolo. Ne ha trovati almeno due. Primo: la neve il due di giugno ci ricorda che alcune cose, che consideriamo impossibili, impossbili non sono.
Secondo: quel quarto d'ora di sole era il simbolo più evidente dell'impermanenza delle cose. Tutto scorre, tutto finisce, tutto se ne va.
Io ero li, a godere di quell'evento quasi impossibile e impermanente. E mi chiedevo cosa fosse giusto. Mi chiedo, da tempo ormai, come ci si deve atteggiare di fronte alle cose impermanenti. Bisogna rimanerne distanti, distaccati, perché tutto passa? Bisogna vivere il qui ed ora? E quando il qui ed ora è un momento di poesia della natura allora godere della poesia della natura, e quando il qui ed ora è invece una botta di malinconia o una fastidiosa sensazione di ansia, o di aggressività, godersi anche questo?
Hanno ragione gli yogi che si ritirano nel monastero, o ha ragione Zarathustra che scende dalla montagna per tornare fra gli uomini?
Fra un paio d'ore non ci sarà più traccia della neve. Ma la domanda continuerà a risuonare ancora a lungo fra le mie orecchie.