Le polemiche per il caso di Eluana Englaro non si sono ancora placate. Silvio ha dato il meglio di se stesso, pretendendo poteri assoluti per creare una legge con nome e cognome. Si sono salvati solo il Presidente Napolitano, fermo e impeccabile nelle proprie prerogative e nel difendere la costituzione e, bisogna dirlo, Gianfranco Fini. Non certo il PD, che sul ddl presentato in fretta e furia dalla maggioranza non ha saputo andare oltre al voto di coscienza, per l'ennesima volta incapace di prendere posizione.
Ma al di la del dramma personale di una giovane donna e della sua famiglia, e dello sciacallaggio politico, rimangono alcune questioni di fondo. La più importante, a mio avviso, è questa: a chi appartiene la mia vita?
La domanda può sembrare banale, la risposta scontata. Ma così non è. Prendiamo il caso del testamento biologico, ovvero quella dichiarazione in cui si esprime la volontà o meno di essere sottoposto a trattamenti terapeutici in caso di lesione cerebrale invalidante e irreversibile. L'uso del termine testamento ci ricorda le volontà di destinazione dei propri beni. Posso fare testamento soltanto di una cosa che è mia. Posso fare testamento della mia vita e della mia morte soltanto se la mia vita è un bene di cui io dispongo, solo se ne sono in qualche modo proprietario. Posso farne testamento solo se la mia vita è mia.
Prendiamo il caso del suicidio. Chi, come me, è psicoterapeuta, prima o poi è costretto ad imbattersi nel problema. Le idee suicidarie sono comuni nei pazienti di una certa gravità, i tentativi di suicidio non sono rari e purtroppo qualche volta il tentativo ha esiti fatali. Il suicidio è il peggior nemico dello psicoterapeuta, e non c'è senso di fallimento peggiore che constatare la propria impotenza quando questo accade. Gli psicoterapeuti devono fare di tutto per scongiurare questo evento. Ciononostante sono profondamente convinto che una persona abbia il diritto di farlo. Non lo approvo, farò di tutto per evitarlo, ma non ne nego il diritto. Non tutti, però, la pensano così.
La chiesa, ad esempio, fino a pochi anni fa negava il funerale e la sepoltura ai suicidi, proprio perché secondo la chiesa la vita è un dono di Dio, il suicida viola il comandamento "Non uccidere"; il suicidio usurpa un diritto che appartiene solo a Dio: solo Dio può decidere il momento in cui la nostra vita deve terminare. È chiaro come, in questo caso, l'idea di disporre della propria fine attraverso un testamento non possa essere accettata da un credente, in quanto non può disporre di una cosa che non è sua.
Mi rendo conto di semplificare molto la questione. Appare però evidente quanto le due posizioni siano distanti:
il non credente ritiene di poter disporre della propria vita, e vede dunque legittima l'idea del testamento biologico e dell'eutanasia;
il credente, al contrario, ritiene che la sua vita non gli appartenga, e dunque non può accettare l'idea del testamento biologico o della morte dolce.
Asimmetria
Le due posizioni sono, agli occhi del non credente, perfettamente legittime. La scelta del credente è, per il non credente, del tutto rispettabile. Lo stesso non vale però per il credente. Per la chiesa cattolica la propria visione del mondo non va applicata soltanto a se stessi, ma anche a coloro che non credono. Quando il professor Ratzinger tuona contro il relativismo ribadisce proprio questa posizione: i valori etici, filosofici, ontologici della chiesa cattolica debbono essere imposti anche a chi credente non è, in base al principio secondo cui solo il Dio cristiano e la sua chiesa sono i depositari della verità. E questo, per un non credente, è ovviamente non accettabile.
Per un approfondimento: relativismo e una godibile bustina di Umberto Eco e un post con questo stesso titolo.