Ti è mai capitato di essere così assorta in una attività da perdere la cognizione del tempo? Che sensazioni si provano, in quel momento? Il flow (flusso di esperienza ottimale) è uno stato psicologico in cui un individuo si sente cognitivamente efficiente, motivato e soddisfatto [ Csikszentmihalyi (1990)].
Questo stato emerge nel momento in cui una situazione implica l'utilizzo delle proprie capacità ad un livello tale che il compito costituisce una sfida. Le persone sono assorte nelle loro attività, i pensieri e le percezioni irrilevanti sono escluse.
La sfida deve essere adeguata: il compito non dev'essere né troppo facile da annoiare ma nemmeno troppo difficile [Abuhamdeh et. al. (2012)]. Vi sono dei fattori che aumentano la probabilità che si inneschi il flusso di esperienza ottimale: l'attività ha obiettivi chiari e feedback immediato, ed il livello di competenza della persona è buono ed appropriato al compito. Fra i fattori che al contrario inibiscono il flusso abbiamo il sovraccarico cognitivo e la noia.
Nel momento in cui si innesca, il flusso ottimale è riconoscibile per una serie di caratteristiche fenomenologiche: l'attenzione è completamente focalizzata sul compito, vi è una sensazione di immersione, si ha un senso di controllo della situazione, una modificazione del senso di autocoscienza (ci dimentichiamo di noi stessi, ci immergiamo nel compito, siamo tutt'uno con il compito), una alterazione del senso del tempo, un senso di appagamento intrinseco (autotelico): quello che stiamo facendo ci dà soddisfazione.
I compiti noiosi e quelli troppo difficili ostacolano il flusso, che al contrario viene incentivato da attività che ci piacciono, che hanno obiettivi chiari e feedback immediati. Perché la noia non ci piace? Perché i compiti troppo difficili non ci piacciono? Ci sono varie ragioni, che nel complesso rientrano in una questione di "economia biologica".
La fatica cognitiva
Un compito troppo difficile non ci piace in primo luogo perché il rischio di fallimento è molto alto. Se siamo praticamente certi di fallire, siamo fortemente demotivati. Se sei sicura di perdere, giocare non è divertente.
I compiti non impossibili ma estremamente difficili implicano uno sforzo cognitivo prolungato, che innesca la sensazione di fatica.
Uno sforzo è una sensazione soggettiva legata all'intensità di una attività, fisica o mentale, finalizzata al raggiungimento di uno scopo [Inzlicht et. al. (2018)].
La fatica fisica è un segnale fisiologico che stiamo spendendo molta energia e che stiamo affaticando la nostra muscolatura. E la fatica mentale?
Potremmo pensare che anche lo sforzo cognitivo faccia consumare più energia (più zuccheri nel cervello). Questa ipotesi, però, sembra non essere vera: il consumo energetico del cervello durante i compiti impegnativi non è significativamente più alto che durante compiti meno impegnativi, o a riposo.
Vi sono due spiegazioni fisiologiche che invece sembrano scientificamente supportate. La prima spiegazione è che, nelle attività cognitive più intense, il cervello rilascia una sostanza neurotossica, la proteina beta-amiloide, che viene poi ripulita dal cervello. Durante lo sforzo cognitivo prolungato il cervello produce più sostanza di quanto riesce ad eliminarne. È, per capirci, una dinamica simile a quella dell'acido lattico.
Una delle funzioni del sonno è quella di permettere al cervello di fare pulizia dei beta-amiloidi, e la deprivazione di sonno aumenta l'affaticabilità cognitiva.
Lo sforzo cognitivo, inoltre, spesso induce una sensazione di fatica in quanto innesca l'attivazione del sistema nervoso simpatico (aumento del battito cardiaco, dilatazione della pupilla, conduttanza della pelle) ed il cervello associa queste risposte alla fatica. Questo succede perché lo stato di allerta cognitiva è associato all'allerta fisica. Il risultato è un aumento dell'attivazione fisiologica di tutto il corpo, non soltanto delle funzioni cognitive. Una aumentata attivazione fisiologica viene soggettivamente associata alla fatica.
Modello economico delle risorse cognitive
La fatica, gli sforzi (fisici o cognitivi) vengono vissuti come dei costi, e gli animali (e dunque anche gli umani) fanno un bilancio. "Ne vale la pena" si chiedono?
Questo bilancio diventa negativo se i risultati attesi "non valgono la candela".
Se il compito è troppo difficile non soltanto diventa molto faticoso, ma calano anche le probabilità di successo; il bilancio biologico diventa negativo, in quanto la persona ha la sensazione di spendere molto e non ottenere nulla.
Opportunity cost
La fatica cognitiva emerge prevalentemente in quei processi cognitivi top-down che richiedono il controllo da parte delle funzioni esecutive e della memoria di lavoro.
Una delle caratteristiche delle funzioni esecutive è che possono fare una sola cosa alla volta, ed il cervello deve decidere il miglior modo per investire le risorse, calcolando il rapporto fra i benefici attesi di una attività cognitiva e l'investimento di risorse.
Le funzioni esecutive e l'attenzione (due funzioni fortemente correlate) sono delle risorse scarse, e gli esseri viventi hanno imparato ad essere molto parsimoniosi con le risorse limitate. La fatica può essere un segnale che stiamo spendendo molto, che l'investimento sostenuto eccede il valore. Nel caso di sovraccarico, vi è anche una diminuzione della probabilità di raggiungere lo scopo.
Nel bilancio vengono pesati anche gli "opportunity cost", ovvero le cose a cui hai dovuto rinunciare per portare a termine questa attività.
Pertanto, nei compiti troppo difficili, la fatica e la consapevolezza del rischio di non portare a casa il risultato rendono l'esperienza spiacevole.
Se aumenta la motivazione, però, aumenta anche la resistenza alla fatica: nel bilancio biologico, la motivazione aumenta perché il valore del risultato (o dell'esperienza) è alto, e dunque compensa i costi.
Il piacere della fatica
Sebbene il sovraccarico venga solitamente vissuto negativamente, vi sono situazioni in cui la fatica viene valutata positivamente [Inzlicht et. al. (2018)].
Il tipico esempio sono quelle circostanze in cui l'attività è faticosa ma sfidante. Un secondo motivo per cui la fatica viene spesso apprezzata è la industriosità appresa: le persone (ma anche gli animali) imparano che per ottenere i risultati bisogna fare fatica. La fatica, se associata al successo in un compito, viene rinforzata e diventa piacevole.
La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni.
Pietro Mennea
Un terzo motivo è legato al fenomeno della dissonanza cognitiva, ed è il principio di effort justification: l'idea di faticare molto per ottenere poco crea dissonanza cognitiva, e per ridurre la dissonanza le persone tendono ad attribuire più valore alle cose ottenute con fatica.
Il cosiddetto effetto IKEA è un altro motivo che porta le persone a preferire le attività in cui è necessario investire tempo e fatica: le persone attribuiscono maggior valore alle cose che hanno costruito con le loro mani.
Infine, l'effetto martirio: numerosi esperimenti [Olivola et. al. (2013)] dimostrano che le persone sono più disposte a fare beneficenza dopo aver superato una prova faticosa o spiacevole.
La noia
Perché ci annoiamo? le ragioni, di nuovo, sono molteplici. la prima riprende l'idea di economia biologica: spesso consideriamo noiose quelle attività che richiedono la nostra attenzione e le nostre funzioni esecutive, che sono risorse scarse, ma il risultato non ha molto valore. Oppure se abbiamo la sensazione che quella attività potrebbe essere fatta molto più velocemente. È, di nuovo, una questione di opportunity cost: ci annoiamo quando abbiamo la sensazione di sprecare tempo e risorse cognitive [Berkman et. al. (2017)].
C'è però un'altra ragione. Il nostro cervello non si ferma mai (non si direbbe, eh?). Nel momento in cui non è coinvolto in una attività che lo assorbe, si innesca quello che viene definito default network [Anticevic et. al. (2012)]. Uno degli effetti del default network è che la mente tende a divagare, ed i pensieri vanno in conflitto con il compito noioso. Se il compito noioso richiede attenzione, riportare il focus sul compito diventa faticoso: i compiti monotoni innescano il processo di mind wandering, la mente si perde, e riportarla al compito richiede uno sforzo, che alla lunga diventa faticoso.
Fattori che mediano la sfida
Dunque il flow si innesca quando il compito non è noioso ma nemmeno eccessivamente difficile. In numerose circostanze, ad esempio nel gioco, si parla di adeguato livello di sfida. Nello sport, ad esempio, il flusso non si innesca se l'avversario è troppo debole o troppo forte, ma quando è più o meno al nostro livello.
Un appropriato livello di sfida tende ad aumentare la probabilità che si inneschi il flusso di esperienza ottimale. Ma l'appropriato livello dipende da numerosi fattori [Engeser et. al. (2008)]: la voglia di vincere, l'ansia di perdere, la need for cognition, l'importanza del risultato e la motivazione intrinseca.
Voglia di vincere, ansia di perdere
Sia le persone che hanno molta voglia di vincere (hope of success) che quelle che hanno paura di perdere (fear of failure) preferiscono sfide relativamente facili.
Importanza del risultato
Se il risultato del compito è importante (ad esempio passare un esame) alle persone non dispiace se il compito è relativamente facile. Viceversa, se il risultato non è importante (ad esempio un videogioco) e il compito è facile, le persone si annoiano.
Need for cognition
È un tratto di personalità legato al piacere di una persona ad impegnarsi in attività cognitivamente impegnative. Le persone con need for cognition alta preferiscono le situazioni più sfidanti.
Motivazione intrinseca
Le attività intrinsecamente motivate tendono ad innescare più facilmente il flusso.
Il cervello nel flusso
Cosa succede al cervello quando si attiva lo stato di flusso di esperienza ottimale? Ulrich et. al. (2014) hanno sottoposto a risonanza magnetica 27 partecipanti mentre portavano a termine un compito, in condizioni di noia, sfida ottimale e sovraccarico. Ne è emerso che, nella condizione di flow, alcune aree cerebrali si accendono ed altre si spengono. Più in particolare vi è una attivazione del putamen (area fortemente legata alla dopamina), del left inferior frontal gyrus (area legata al senso soggettivo di controllo), e inibizione dell'amigdala (area cerebrale che si attiva in presenza di stimoli pericolosi e che innesca emozioni di ansia e paura) e della corteccia prefrontale mediale, che fa parte del default network. L'attivazione del sistema dopaminergico è una delle cause del senso di appagamento intrinseco legato all'attività che stiamo facendo. L'amigdala è il sistema di allarme del cervello, ed il fatto che si disattivi durante l'esperienza di flow lascia intendere che vi sia una incompatibilità fra emozioni di ansia e flow: se siamo in ansia è più difficile entrare nel flusso, e quando ci entriamo è meno probabile che si inneschino emozioni d'ansia.
La dopamina
Fra i requisiti per innescare il flow, abbiamo parlato di obiettivi chiari e feedback immediato. Per comprendere perché è importante, dobbiamo parlare della dopamina [de Manzano et. al. (2013)]. La dopamina è un neurotrasmettitore di cui tutti abbiamo sentito parlare, ma il cui ruolo è talmente complesso da risultare ancora misterioso [Salamone et. al. (2012)].
La dopamina è implicata nella programmazione e nell'esecuzione dei movimenti, in alcune tipologie di apprendimento, e nella valutazione del valore motivazionale di un obiettivo [Westbrook et. al. (2016)]. Sono funzioni che sembrano fra loro scollegate, ma tutto lascia pensare che, al contrario, abbiano un legame forte. Alcune aree dopaminergiche (strutture del cervello con recettori per la dopamina) si attivano in base al valore di uno stimolo. Valore che viene calcolato in base alla probabilità di ottenerlo, alla distanza (fisica e temporale) dal raggiungimento, e all'importanza attribuita alla stimolo [Gershman et. al. (2019)].
Ogni volta che un individuo compie un'azione (programmazione ed esecuzione), se questa azione permette di raggiungere un obiettivo, vi è un rilascio di dopamina, che "rinforza" quella azione (apprendimento). Se l'obiettivo non viene raggiunto, la dopamina non viene rilasciata.
La quantità di dopamina è inversamente proporzionale alla probabilità di raggiungere l'obiettivo. Se il successo è certo, il livello di dopamina sarà basso, se il successo è improbabile sarà alto. Nello sport, ad esempio: vincere con un avversario molto più scarso non dà soddisfazione (risultato certo, dopamina bassa); vincere con un avversario imbattibile è estremamente difficile, e se non si vince la dopamina è ancora più bassa. L'avversario ideale è alla nostra portata, magari un po' più forte di noi. Vincere non è affatto scontato, ma se ci riusciamo c'è molta più soddisfazione (e parecchia dopamina). Infine vi è una relazione fra il tempo che intercorre tra l'azione e il risultato ed il livello di dopamina. Meno tempo trascorre e più elevato è il livello.
Diventa dunque evidente perché livello di sfida appropriato, scopi chiari e feedback immediato sono importanti. Se il compito è troppo semplice il risultato è certo, e la dopamina è bassa. Se troppo difficile e non si raggiunge alcun obiettivo la dopamina è a zero. Se otteniamo un risultato non scontato, la dopamina sarà alta. Ma solo se azione e risultato avvengono immediatamente.
Il default network
L'inibizione del default network è probabilmente alla base di alcuni effetti del flow. Il default network si attiva in quelle attività in cui la persona deve attivare memorie autobiografiche, quando deve pensare o pianificare aspetti della propria vita, pensare a proposito di sé stessa, valutare le proprie emozioni e così via. Ovvero compiti più riflessivi [Andrews-Hanna et. al. (2014)]. L'inibizione del default network porta a dimenticarci di noi, ed aiuta ad innescare la sensazione di immersività nel compito.
Progettare per incentivare il flow
È possibile progettare il flusso di esperienza ottimale? Ovviamente la risposta è "dipende". I videogiochi, ad esempio, sono progettati proprio per innescare immersività e flusso [Ermi et. al. (2005); Michailidis et. al. (2018)]. Nel videogioco si inizia piano, e poi mano a mano le cose diventano sempre più sfidanti. Gli obiettivi sono generalmente chiari, ed il feedback immediato (devi sparare al cattivo ed evitare che lui ti spari, ed in pochi secondi sai se sei stato più bravo tu o lui).
In contesti diversi innescare il flusso è più difficile, ed in fondo nemmeno necessario. Spesso, per fare un esempio di funzionalità il cui scopo è puramente estrinseco, mi piace citare il pagamento dell'F24 nell'internet banking: un compito che facciamo perché dobbiamo farlo, ma che difficilmente ci permetterà di innescare il flusso. Ciononostante, alcuni degli aspetti emersi nello studio del flow dovrebbero essere applicati in ogni circostanza.
- Evitare la noia, ad esempio assicurandoci che un compito non duri più del necessario, evitando tutti quei passaggi che non contribuiscono a creare valore per l'utente.
- Evitare il sovraccarico cognitivo. Può essere utile, nei compiti più complessi, semplificare, scomporre il compito in task più semplici, guidare l'utente (con wizard, tutorial, istruzioni chiare).
- Evitare che il compito generi ansia, ad esempio in caso di situazioni che possono generare degli errori le cui conseguenze possono essere negative.
- Stabilire, nella progettazione dell'interazione, obiettivi chiari e feedback tempestivi.
- Sfruttare, quando opportuno, dei meccanismi di gamification. Quando opportuno creare per l'utente delle sfide, che devono comunque essere facoltative - se la persona non ha voglia di giocare ma vuole andare al sodo, diventano fastidiose e danneggiano l'esperienza.
"Economia biologica" e UX
Nei paragrafi precedenti ho introdotto un neologismo: economia biologica. L'idea che tutti gli esseri viventi siano evoluzionisticamente programmati per fare una valutazione dei benefici, dei costi e dei rischi delle loro azioni. Il tempo e le risorse cognitive sono preziose perché limitate. Non sprecare le risorse delle persone è, a mio giudizio, uno degli imperativi etici del design.
Il nostro excursus sulla noia, però, ci dice probabilmente anche un'altra cosa. Spegnere il cervello è estremamente faticoso.
I compiti che viviamo come estremamente noiosi o faticosi sono, per il nostro sistema cognitivo, del tutto innaturali, e implicano un controllo top-down che non corrisponde al modo in cui l'evoluzione ci ha "progettati". E dunque un secondo comandamento del design è: progetta attività che siano in sintonia con il sistema cognitivo e motivazionale delle persone.
A questo approccio alla progettazione, fortemente radicato nella natura delle persone, ultimamente ho dato un nome: "grounded design". Ma di questo parleremo un'altra volta.